La prima persona che ho visto giocare a un videogame è stato mio padre.
Erano gli anni 80 e con mio zio si sfidavano in un gioco di sci, in cui un ammasso di pixel era Alberto Tomba e un altro Pirmin Zurbriggen.
Nel tempo abbiamo coltivato insieme questa passione, prima sul Mega Drive e poi al PC. Quanti campionati su Pes: io e mio fratello che cercavamo di fare squadre equilibrate e lui che si comprava Gerrard e Zidane e ci segnava da metà campo. In Winter Challenge ci legavamo il filo del gamepad attorno alla gamba per premere più velocemente il tasto con l’indice e vincere le gare di pattinaggio di velocità. Quante botte su Street Fighter e auto nei dirupi col primo Need for Speed.
Oggi continua a essere un discreto gamer. Ha platinato CoD wwII e ci siamo fatti qualche warzonata, ma mal digerisce la frenesia del gioco online, si spara dei campionati col Genoa su Fifa e odia Fut perché trova assurda questa cosa che in un gioco che è tuo non puoi comprare chi ti pare quando ti pare (e forse tutti i torti non li ha).
Recentemente ha scoperto Rdr2 e al momento è nella prateria a procacciarsi pelli di cervo.
I videogiochi per noi sono sempre stati questo: svago, fantasia, competizione, tempo da passare insieme. Ci uniscono ancora, a trent’anni dalle prime partite.
E nel frattempo mio figlio ci osserva. Sa che è ancora presto, ma arriverà quel momento e se gli chiedi cosa fanno papà e il nonno, mette le dita in modalità mirino e ci scioglie oneshot.

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